Tutte le professioni di aiuto implicano l’incontro con una persona sofferente. L’incontro con l’altro è perciò un incontro con un altro fragile, bisognoso di cura e di attenzione, malato, a disagio, in condizioni di inferiorità o di non autonomia, ecc.
L’incontro con l’altro che soffre ci riporta alla nostra realtà psicologica personale e familiare, sia attuale che passata.
Questa prima constatazione ci rimanda a due elementi di indagine:
» chi è il curante e perché ha scelto quella professione
» come può fare il curante ad affrontare la sofferenza senza esserne travolto
Il primo elemento ci spinge ad una riflessione, che è opportuno fare in gruppo, sulla storia personale di questa scelta. Come è nata l’idea di questa professione, cosa pensavo di fare, cosa poi ho fatto. Quali erano le mie aspettative, quali sono ora le mie condizioni, cosa mi aspetto dal mio lavoro, cosa mi piacerebbe che accadesse per migliorarlo, o forse ho voglia di cambiare?
Queste sono solo alcune tra le infinite domande che a volte si fanno i curanti. Può anche capitare che il curante non sia consapevole delle ragioni profonde della sua scelta professionale e allora un eventuale malessere sarà proiettato all’esterno di sé con una operazione difensiva “classica” ma piena di pericoli.
Tutti i meccanismi di difesa infatti hanno funzioni temporanee e se non sopravviene una modifica del proprio sé l’io è “costretto” ad aumentare l’intensità di tali meccanismi difensivi o di aggiungerne altri a quelli in uso con conseguente e probabile rottura dell’equilibrio psicologico.
Il secondo elemento ci conduce invece più precisamente sul tema dei contenuti della professione. Ho deciso di fare questo lavoro, sono consapevole (o non sono consapevole) delle ragioni inconsce che mi hanno portato a questa attività; ora la faccio ma ho delle domande, mi chiedo delle cose, oppure sono infastidito o stanco. Mi chiedo cosa posso fare per migliorare la mia professionalità, affrontare meglio il mio lavoro, il rapporto con i miei pazienti, vivere più serenamente la quotidianità. O forse ho dei malesseri che però non so riferire a nulla di specifico, sono stato dal medico e mi ha detto che sono solo stanco, o stressato o altro. C’entra qualcosa in tutto questo il mio attuale lavoro? Cosa posso fare per capirlo? E per cambiare questa mia condizione di malessere?
Esiste poi un terzo elemento (collegato al secondo ma più subdolo) che complica le professioni di aiuto: si tratta di un altro elemento inconscio che spinge a strutturare il proprio lavoro in maniera particolare. La mia organizzazione appare “razionale” ma comporta dei costi umani, delle sofferenze dei pazienti che io attribuisco alle necessità organizzative. Purtroppo le risorse sono quelle, gli orari sono quelli, la struttura è quella, e così di seguito.
Ma è proprio così? E’ proprio vero che non posso far nulla sul fronte dell’organizzazione? Non è forse che questa organizzazione risponde più ai miei bisogni inconsci che non alle esigenze dei pazienti? E a questo proposito di quali bisogni parliamo?
Gli studi sono concordi nel dire che tali organizzazioni spesso rispondono a un bisogno di difesa dall’ansia persecutoria e depressiva. Cosa vuol dire? Cosa posso fare per ovviare a ciò?
Esiste poi una quarta osservazione. Nel mio gruppo di lavoro tutto andrebbe bene se non ci fosse quella mia collega. Oppure se non ci fosse il capo squadra, o il capo servizio, oppure il medico, o anche gli infermieri. Per non parlare degli amministrativi e dei dirigenti. Insomma c’è qualcuno nella organizzazione che proprio non è adatto a fare questo lavoro. Sono sicuro che se non ci fosse quella persona lì o se fosse diversa tutto sarebbe perfetto.
Quante volte abbiamo incontrato persone che ci fanno questi discorsi? Quante volte ci siamo chiesti perché, ad un certo punto, una persona brava, motivata, gran lavoratore, che aveva sempre fatto bene, improvvisamente, oppure poco a poco, ha cambiato, ha incominciato a far male il suo lavoro, ad assentarsi di più, proprio lui che non stava a casa neanche se stava male, ha cominciato a litigare con gli altri, a lamentarsi con la sua responsabile, ecc ,ecc,
E così si arriva al burn out. Burn out è un termine inglese che vuol dire tagliato fuori e che noi possiamo tradurre con : crisi, incapacità, mancanza di voglia, mancanza di iniziativa, depressione, pianto, voglia di cambiare, desiderio di essere aiutato, incapace di svolgere il proprio lavoro, ecc.
Le attività che vi proponiamo vanno nella direzione di permettere una lettura del lavoro, delle relazioni all’interno della struttura o del gruppo di lavoro, di dare voce al malessere, di trovare soluzioni al disagio.
Questo attraverso un lavoro di gruppo che può coinvolgere da 6 a 12 persone.
Il gruppo sarà condotto da un esperto in conduzione di gruppi che sarà garante dell’attività e soprattutto che nel gruppo ci sia rispetto, ascolto, correttezza, non aggressione reciproca, accettazione delle idee di tutti e rispetto delle stesse, capacità di condurre la discussione e di promuovere il cambiamento.
Affinché abbia un minimo di valore il gruppo si dovrebbe incontrare, con incontri della durata di circa 1 ora e mezzo, almeno 5/6 volte, meglio sarebbe una decina perché questo maggior tempo permette un percorso più lento ma più profondo verso l’introspezione, verso la scoperta dei propri meccanismi di difesa, verso il confronto con gli altri e con le loro difficoltà che sono anche le nostre, verso un progressivo cambiamento “auto gestito”.