D Repubblica, 9 Febbraio, 2015.

 

Nella società odierna, tutta focalizzata sulla performance, c’è una forte pressione alla perfezione. Ma non sempre perfezionismo fa rima con felicità; al contrario, questa tensione a fare sempre di più e meglio può renderci eternamente insoddisfatti, scontenti, sfiduciati e perennemente in corsa con noi stessi. Ecco il parere dell’esperta per imparare a essere imperfetti e, quindi, anche più autentici e liberi

Nessuno è perfetto, si dice, eppure vogliamo esserlo. Impeccabili, precisi, affidabili, sempre a posto. A volte sfociando addirittura in un perfezionismo esagerato e svantaggioso. Quando ci mettiamo alla prova, pretendiamo di raggiungere traguardi sempre più elevati e impossibili. Ci confrontiamo con le cose solo se sappiamo di poter eccellere. Quando non riusciamo a smettere di ripensare a un errore, a una distrazione, a una mancanza. Oppure ci misuriamo con gli altri e ci fermiamo se non siamo certi di distinguerci. Ci sentiamo affondare nella mediocrità se non brilliamo, vogliamo la perfezione da noi stessi.
Quando la richiediamo agli altri. Siamo sempre pronti a correggerli, riprenderli, notare inesattezze e imprecisioni. Li vogliamo bravi, completi, validi, efficienti, altrimenti sono una delusione.
Quando fallire è uguale a non essere validi. Temiamo l’errore, l’insuccesso, ci sconvolge la possibilità di sbagliare di fronte agli altri. Non chiediamo aiuto per timore di sembrare deboli e incapaci. Abbiamo bisogno di mostrare un’immagine impeccabile.
Il perfezionismo ha volti diversi, si maschera con atteggiamenti felicemente accolti di responsabilità, puntualità, precisione, caparbietà. Lo stimolo a fare sempre meglio è senza dubbio una motivazione portante per un’evoluzione creativa. Ci aiuta a sfidare noi stessi. A tracciare un successo personale, quello di andare avanti nella vita, realizzare ciò che si desidera, essere autentici. Attenzione e impegno sono ingredienti preziosi se si accompagnano a un senso di soddisfazione personale. Se sbagliare diventa stimolo a riprovare. Il perfezionismo in parte può andare d’accordo con la nostra riuscita personale. Ma è necessaria la spinta a volersi migliorare, più che a rendersi perfetti.

Perché il perfezionismo può invece trasformarsi nella ricerca senza fine dell’impossibile. Renderci eternamente insoddisfatti, scontenti, sfiduciati. Mai veramente arrivati ma sempre in corsa con noi stessi per fare di più e meglio. Oppure bloccati, paralizzati proprio per l’impossibilità di realizzare i nostri obiettivi irreali. Sempre a dubitare delle scelte fatte, esitanti nelle decisioni, ruminanti mentali nel tentativo di rendere le cose perfette. Portarci a pensare in bianco e nero, si vince o si perde, si riesce o si fallisce. Legarci a regole inviolabili, renderci conformisti. Ma anche ossessionati dal controllo, incapaci di improvvisazioni. Scrupolo, rigore, pignoleria si muovono sul filo della fragilità. Possono dare vita a un regime interiore stressante tra bisogno di fare sempre meglio, trovare traguardi ancora più ambiziosi e sensi di impotenza per l’impossibilità di raggiungerli. Anche il perfezionismo verso gli altri è distruttivo. Nella coppia ci trasforma in partner ipercritici, impazienti di riprendere, correggere, far notare le mancanze dell’altro. Come genitori rende esigenti. Spesso sono proprio i genitori a essere “perfezionanti”, a indurre e promuovere questo tratto. Numerosi studi dimostrano che se il perfezionismo del padre o della madre è elevato, lo è anche quello dei figli. Le ricerche poi dicono che i perfezionisti si demoralizzano facilmente. Spesso hanno difficoltà a portare a termine i compiti iniziati. Sono vittime di sbalzi di umore, cali di autostima, frustrazione, depressione. Tendono a rimanere delusi dalla propria prestazione. È il paradosso del perfezionista: tanta più importanza dà all’eccellenza impegnandosi a fondo, tanto più rischia di minare il proprio successo. Aggiungiamo anche che risulta antipatico e noioso: iper-responsabile, iper-controllato, iper-efficiente, iper-coscienzioso.

Un’immagine pesante dunque. Eppure il perfezionismo viene incoraggiato dalla cultura. Premiato addirittura. È un disagio culturale, in un certo senso. Nella società della performance è evidente una consistente pressione che incita alla perfezione. Pensiamo alla scuola, ad esempio. Dove si è apprezzati in funzione dei risultati: se si è precisi, ordinati, si risponde bene, si sanno tante cose, si ha il massimo dei voti. Pensiamo alla pubblicità. Che esalta fino alla nausea l’importanza della perfezione del corpo.
È necessario imparare a essere imperfetti, invece. Convivere con le nostre insufficienze e inadeguatezze. Sfruttare meglio le occasioni anche se non siamo il top. Soffermarsi meno sui dettagli, essere “globali” nel modo di vedere le cose, allargare la lente. Diminuire la portata delle nostre aspettative su noi stessi e sugli altri, abbandonare le critiche, sintonizzarsi con la realtà in modalità più sciolte. Concedersi di essere “meno”: meno bravi, meno precisi, meno affidabili, meno belli, meno perfetti, meno sicuri. Meno efficienti, meno controllati. Serve anche questo. Uscire dalle griglie mentali di rendimento, produttività e successo. Proviamo a capire chi siamo al di fuori di questi schemi. Sicuramente c’è altro. Bisogna imparare a commettere errori, lasciarsi andare allo sbaglio e lasciar andare anche le cose. Allentare il controllo sulla nostra vita e su quella di chi ci circonda. L’autenticità non è perfetta ma libera.

di Brunella Gasperini, Psicologa